La versione di Chumani 1.

1.

         In principio abbiamo cercato la visuale intera con tutti i  colori; poi è finita che abbiamo guardato nello spazio immenso, senza trovare più il grande immaginario.

Ci sono stati tempi che abbiamo trovato le parti migliori, da subito sono state travolte e sono rimaste le ombre, intraviste nel buio dopo il tramonto.

I desideri si sono radunati innanzi ai nostri occhi. Allora occorre agitare gli arti, camminare per colpire, tagliare la testa e la coda alle cose inaspettate. Ci siamo detti che per abbracciare i desideri bastasse volerli, perché così narravano le nostre menti. Loro sono arrivati fino a noi vestiti degli abiti migliori e tenuti a galla dalle nostre aspettative. Li abbiamo cullati, curati e voluti; non è bastato.

Quelle genti dalla pelle chiara e l’anima in fiamme, vestiti degli abiti peggiori seppure sgargianti, portatori di pessimi desideri, saltellanti anche se tragici e colmi di infamie hanno continuato a camminare e, infine, ci hanno trovati. Loro, accompagnati dagli incubi peggiori, sono comparsi ai nostri occhi, increduli e tristi, nonostante avessimo combattuto fino allo stremo per tenere lontani quei portatori non sani di tragedie e le novità che quei tipi annunciavano, foriere di disperazione e di morte. Fame, miseria, umiliazione e declino. Chi è riuscito a fuggire dalle riserve o ha riparato in Canada come alternativa alla resa, ha perduto tutto del suo piccolo mondo, mantenendo quel poco di libertà in cambio di una melanconia senza fine e di un’infinità di rimpianti senza ritorno. Noi siamo stati fra quelli.  

Abbiamo vissuto due cammini. Il primo è un inutile ricordo, di questo ha perso la forma e la sostanza, talmente è lontano e disperso; bello, certo, ci ha visto sulla pista liberi, arzilli e valorosi, ma non ha più menti e orme che ne raccontino la storia. Il secondo è attuale, dovremmo dire fra i due è il cammino vivo, ma della vita ha solo il declino, così miserevole da perdere anche la narrazione.

I ricordi, comunque, non si possono evitare e nemmeno si può regolarne il flusso, però nello squallore delle riserve spesso si fermano davanti alla ciotola del cibo. Chi ha imbracciato un fucile e, oggi, spasima per una bottiglia ad alto tasso alcolico, evita con regolarità di prestare la sua voce alla memoria.

Noi che siamo rimasti liberi, pur in una terra lontana e ostile, abbiamo, forse, ancora il lusso di dialogare con i ricordi che affiorano; quelli piacevoli, quelli imbarazzanti. Mi vedo ragazza, quando tutto era ancora da vivere, ma ad indossare gli abiti mentali della memoria, sono gli episodi di quando avevo il sacro fuoco della guerriera e sparavo ai nemici che incontravo. Rammento, in particolare, il primo nemico che uccisi e la sorpresa, fra le tante cose che si affastellavano nella mente, l’affiorare di una timida invidia. Il guerriero Crow era morto in battaglia, la fine che tutti i guerrieri sognano per sé stessi[1]. Un pensiero di allora che torna alla mente oggi che faccio fatica a cavalcare e le cacce sono uno struggente ricordo, a quelle pensano i nostri ragazzi aiutati da  Stella che Balla, la quale, vai a capire, ha curato una consistente riserva di energie. Inevitabile che si pensi alla propria fine. Così è stato per me, di conseguenza ho allestito la scena.

In un mattino d’estate, noi da una parte, una banda di predatori bianchi dall’altra. Spari, urla, un nemico che scivola a terra, poi un colpo di fucile e la sorpresa di vedere uscire il sangue dal mio corpo. Così in un lampo ho visto la mia futura morte; una fine della quale andare fieri, da vera guerriera. Tra i fumi della controversa visione ho immaginato me e altre ombre camminare nella prateria celeste, verso il sentiero degli spettri per ricongiungerci alle tradizioni della nostra storia. È tutto in penombra, però, sono privilegi quelli di vedere e poter mostrare, riservati ai preferiti dagli spiriti, ossia oltre le mie possibilità. Eppure, in questa fase della mia vita, nella quale il confine fra immaginare la fine e trovarla davanti, si fa labile e possibile, con forza voglio vedere me camminare nella nostra celeste prateria. Sono lampi, istanti, veloci visioni che fuggono e si frappongono, qualcosa comunque vedo, è uno spazio infinito, con scampoli di gioia.

C’è sempre differenza, purtroppo, tra immaginare e vivere. Ciò che vedo con questi occhi stanchi è uno spazio infinito, dove camminano fantasmi, avvolti in un grigiore senza senso. Abbiamo preso a muoverci non contando il tempo, con i desideri che si allontanavano, lontani dai colori e da prospettive che avessero un senso.

Torniamo indietro, allora, a quando ben prima di perdere le nostre ragioni, fra le verdi praterie e le rocce arrossate dal sole, viaggiavamo con allegria e ardore ed era una gioia poterlo fare.

La vita era un grande campo, ci scorrazzavamo su e giù, in lungo e in largo. Correvamo, galoppavamo, amoreggiavamo. Andavamo a caccia, cercavamo le acque, gli animali, i parenti, i guerrieri delle tribù e dei popoli amici, ci capitava di fare scorte di sollievi e di piaceri, quando incontravamo i nemici mettevamo alla prova il nostro valore, senza paure, più della morte temevamo di perdere le libertà.

Nel grande spazio, chiamato vita, si accendevano i falò, si lanciavano le danze, si parlava annunciando anche grande novità e ricordando le recenti imprese. L’amore era il nutrimento, gli animali andavano e tornavano, il sole giocava e si nascondeva, i desideri erano la nostra pelle.

C’erano le famiglie e c’era il popolo. Strano, vero? Erano la stessa cosa.

Noi, bambini e bambine, lo avvertivamo a ogni passo, a ogni guaito e risa o lacrime che fossero: la condivisione era assai ampia e noi eravamo tra i protagonisti e i fruitori e lo spazio dove eravamo inclusi insieme alle nostre vite non era sufficiente a contenerla. Le percezioni che avevamo non restavano nei confini, non erano mai esclusive e ristrette nelle faccende delle singole famiglie. I sentimenti e gli intimi coinvolgimenti, loro sì erano strettamente riservati, il resto, però, era patrimonio comune.

Che gioia straripante, per noi  bambini e bambine ricevere le coccole da tutto un popolo. Decine e decine di braccia ci tenevano sollevati, ci cullavano, ci trascinavano nell’affetto, nelle carezze, nei baci, tante mani ci offrivano sollievo e cibo. Ci voleva un’enorme prateria, adatta a contenere la grande condivisione. A essere ambiti e necessari non erano solo gli spazi a lato, di fronte, sulle spalle. Non c’erano solo il caro padre, la cara madre, l’amato fratello; un pochino più in la Orso al Risveglio, Cavallo Sdraiato, Piccolo Daino, Fanciulla in Piedi, Nuvola Rosa, anche loro bambini cullati, carezzati, baciati. In aggiunta una massa di cugini, tanti e di tutti i gradi, vicini, lontani,

altrove, quasi una tribù nella tribù. Offrire e ricevere condivisione espandeva forza, essere condivisi aveva il gusto del prodigio.

Nello spazio ampio io, Chumani ancora bambina Sioux, crescevo e cambiavo.

Guardavo tutto, ovunque e mettevo da parte; imitavo le stranezze degli adulti, ricreando nel mio mondo, ove fosse possibile, i loro strani riti. Non mi esimevo dal chiedere quanto potevo capire e altrettanto dell’incomprensibile. Elaboravo le domande e dalle risposte creavo i nuovi interrogativi, i baldi guerrieri e i saggi anziani prima ridevano e poi sbuffavano, chiedendosi quando la cucciola impenitente li avrebbe lasciati alle loro cose, sicuramente importanti. Io non mi ponevo problemi, era così divertente vedere i grandi passare da un modo all’altro, prima ridacchiavano, poi vedevi appiccicata sui loro corpi la preoccupazione per quella bambina che chiedeva sulle danze, perché agitassero i bastoni e le urla e poi ricominciava, e le stelle? La luna? La notte? Che meraviglia, per me e non so per loro, quegli sguardi spaesati sopra le teste che chiedevano aiuto. Ditemi voi, una bambina dovrebbe abbandonare quel gioco così dirompente? Era divertente assai e a me bastava.

Lo sguardo inconsapevole si posava sul mistero, per noi totale che gli altri chiamavano storia, della quale nulla sapevamo, ma lei, lenta e inesorabile, si prendeva anche la nostra innocenza. Con il tempo avremmo appreso che unire le tradizioni dei popoli alle fasi della vita che si distendevano torienelle nostre esistenze avrebbe avvicinato la comprensione del mistero.

“La storia cammina anche con le vostre gambe, le vostre condivisioni e i vostri rifiuti”, avrebbero detto quelli che sapevano e conoscevano le scritture dei misteri. Al momento doveva bastarci quello che riempiva le nostre vite da fanciulli. Dunque, se volevo sapere dell’evoluzione dei giochi e dei sogni chiedevo a Orso al Risveglio. Se volevo conoscere la vita, seppure depositata in un lontano futuro, dovevo stare vicino a Stella che Balla.

Lei mi spettinava i capelli e rideva, mi spingeva e sghignazzava, ripeteva i gesti e continuava a prendermi in giro. Chiedevo a quale spirito giocherellone si fosse affidata e lei prorompeva in una risata.

“E dai, Chumani! Gioca! Fai qualcosa di nuovo …”.

Io non capivo, eppure lei mostrando i suoi tempi stava solo anticipando i miei. Già, con il tempo … con il tempo avrei vissute tante esperienze, da lei già masticate, elaborate e digerite. Fino a quando vediamo più tramonti che albe, e quanto gradiremmo che il passato fosse il presente.

“Ricordi, Stella? Correvamo, giocavamo, combattevamo. Sensazioni che si sono affacciate e hanno salutato? Che dirti, le vedo ballare insieme ai cavalli e alle storie adagiate sull’erba, magari ci stanno ancora cercando …”.

“Davvero Chumani? Io vedo ombre che cercano rape che non ci sono più, bisonti che sono fuggiti e stelle che ci hanno abbandonato. Il passato, cara amica, è bello e lontano. Godiamoci il tramonto …”.

Tempi lontani, di là da venire, siamo ancora bambine, Stella che Balla.

Io mi beavo dello sguardo di Stella, molto parzialmente ancora innocente, proteso, comunque, ancora in avanti.

Lei sorrideva e osservava. I giochi, le rappresentazioni delle roboanti avventure dei guerrieri e i corpi dei maschietti. Bambini anche loro, ma a breve e lei già lo sapeva, avrebbero popolato la fase successiva della sua vita.

Un mondo si stava aprendo al suo sguardo e ben presto si sarebbe mostrato anche alla mia visuale.


[1] Pensieri e situazioni trattati e narrati nel libro “Eravamo liberi” di Leonardo Benedetti, Graus edizioni 2024

brano musicale:

Robbie Robertson – Ghost dance


		
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