La versione di Chumani. 3

La versione di Chumani

3.

         Le ombre non erano inquietanti. Si allontanavano, tornavano, si ammucchiavano. Scomparivano, riaffioravano alla luce, allungate e sinuose; prima un’ombra, a seguire la seconda e poi tutte le altre; ancora nessuna per ridiventare subito dopo le ombre di tutti. si sdraiavano in terra, divincolandosi di qua e di là e mentre indicavano la luna diventavano figure che sembravano volare.

Corpi umani lunghi e snelli; forme di giganti; bastoni e lance erano strisce nere che sembravano infinite mentre si barcamenavano verso il cielo.

Poi i rumori, tanti. Lo sciacquettare dei monili; i bastoni che rimbalzavano in terra e le lance che sibilavano in aria; lo schiocco delle fruste; il rimbombo delle mani che sopra la testa battevano una sull’altra e si incrociavano sui toraci. Voci e suoni e canti. Guerra! Morte ai Corvi e agli Shoshone! Il ticchettio delle collane; canti che entravano nella testa ed erano gioie e lamenti; bastoni e tamburi che liberavano il ritmo; il tremolio delle donne, complicità e invocazioni alla gloria. Urla scomposte ed erano anche loro lo spettacolo. Noi bambini non capivamo e non aspettavamo che qualcuno, fra i grandi, ci regalasse la comprensione.

C’era un tipo strano, fra i tanti. Era sempre seduto. Maneggiava un sacchetto pieno di pietruzze, tutte colorate; ci giocava come dicevamo noi. Ne prendeva un’abbondante manata e le lanciava in terra, se più di qualcuna rotolava fin dentro il falò, lui strepitava.

Guardava le sopravvissute e bofonchiava concetti che padroneggiava solo lui. Raccoglieva tutto e ricominciava il gioco.

“Che Wanka Tanka mandi il segnale”, diceva con ostentata solennità e lo ripeteva tutte le volte successive. Tranne quando tutto preso e un poco in trance alzava il braccio, illuminandosi di una luce giocosa e rara che si mostrava nelle occasioni più importanti. Rimetteva tutte le perline nel suo sacchetto, invitando gli anziani a sedersi in circolo, diceva strane frasi e disegnava i messaggi con il suo magico bastone. Gli anziani guardavano, sorridevano o si ammutolivano, cercando altrove altre speranze.

Io che nulla capivo guardavo mia madre.

“E’ il nostro sciamano”, rispose lei alla mia domanda muta. Per me fu allora e tale sarebbe rimasto nel tempo Colui che sta Seduto, il suo secondo nome. 

Ero già grande quando, purtroppo, giunse il momento di vedere lo sciamano per l’ultima volta. Mi meravigliai che fosse in piedi, imbronciato ma spigliato, con l’andatura sciolta di chi sta andando senza più tornare. Lo vidi avviarsi verso le colline, ombra indistinta nella notte, attesi senza speranze che tornasse a sedersi nel suo solito posto.

Era il rituale dei grandi la cerimonia prima della battaglia, ira mischiata alla solennità che sapeva un poco di disperazione. Però ai nostri occhi, quelli ignoranti da mocciosi, era tutto solo un gioco. La cerimonia, la battaglia e che ne sapevamo? Sentivamo le evocazioni delle cose importanti e la preparazione, vicina  e attraente, ad altre cose che non vedevamo e mai avremmo visto.

Divertente e attraente era tutto l’intorno, roteante nei pressi della nostra fantasia. I burberi guerrieri, gli anziani sdentati con la bocca larga, l’andirivieni tumultuoso e agitato, gli atteggiamenti sguaiati e anche il ridicolo che ci faceva ridere.

Mi piaceva il ritmo e il mistero che si alzava dal falò acceso nella notte e noi a chiederci perché proprio quella luce che si specchiava nelle stelle ci mandava in volo.

Il gioco, quello così imperdibile, padrone della fantasia e lontano dai nostri perché si chiamava guerra. Ed era un bel gioco.

“Ehi, Orso al Risveglio! È proprio un bel gioco questa danza!”

“ Bellissimo, Chumani! È già nostro”.

Prendeva forma il gioco, con tutto il suo tracciato. E, quindi, le regole e le altre amenità.  “Rifaremo la danza – disse Orso al Risveglio – e organizzeremo le squadre. Gli Oglala Sioux contro i Corvi; i Cheyenne contro gli Arapaho e così via …”. E ancora …

“Come chiameremo il gioco?”. Orso al Risveglio chiese e si rispose.

“Ripetiamo l’urlo che sentiamo ovunque. Guerra! Guerra! Ecco, guerra è l’urlo di tutti e sarà anche il nome del nostro gioco”.

Così danzammo anche noi e giocammo a fare i guerrieri. Un gioco particolare, nuovo e anche diverso.

I giochi che avevamo inventato e praticato fino ad allora non erano stati estratti dalle nostre vite. Nascevano dalla fantasia e lì restavano. Quel tal gioco che ci agitava in continuazione, lì ripetevamo le mosse dei grandi, i loro passi con tutte le ombre al seguito. Poi immaginavamo le urla, gli spari, le frecce e anche il dolore. Ebbene, quella gran carovana non usciva dalla nostra creatività, era l’imitazione perfetta o meno delle vite del nostro popolo.

In quei tempi eravamo ancora lontani dal capire dal capire le differenze e i nessi. Troppo frizzante e coinvolgente il gioco della guerra, dal volere il peso di altri pensieri. Come tante altre volte sarebbe stata la vita a riagguantare le anomalie che tornavano a essere solo ricordi. Poco alla volta il rapporto fra guerra e gioco cominciò a essere vero e a squilibrarsi a favore della prima condizione, sempre maggiori quote venivano sottratte all’immaginazione e alla finzione.

Con i nostri bastoni rappresentavamo gli spari, con i piccoli archi il lancio delle frecce, cadevamo, ci rialzavamo o restavamo distesi, a seconda delle regole del gioco. D’improvviso, senza sapere il come e il perché vedemmo e capimmo, brutalmente, il nesso fra finzione e realtà. Tornavano i guerrieri dalle battaglie; alcuni dei cavalli avevano i loro cavalieri distesi e immobili; i corpi nascosti dalle coperte. Quei guerrieri che avevamo rappresentato nei nostri giochi venivano a dirci che loro non si sarebbero più rialzati.

Nessuno di noi seppe mai spiegare o rammentare quando aveva smesso di essere un bambino. Più tardi sarebbe stato l’amore a tracciare la linea e a irrompere con fragore nelle nostre vite; ma nei tempi dei quali stiamo narrando il gioco era la vita, non avevamo alcuna necessità di scrutare l’orizzonte per conoscere la scadenza.

Un passetto alla volta per arrivare al punto dove il gioco viene coperto da una spessa coltre, restano le cose che ci avevano divertito, vissute come vere nel pieno del dramma.

Ricordo le frasi udite di soppiatto. È morto da valoroso, già replicava un altro, di quella morte con onore alla quale tutti noi aspiriamo. Compresi in altri tempi che quelle morti erano in battaglia. Fino a capire davvero che perire combattendo misurava e creava il valore di un guerriero. Era la fine del gioco? Possibile, io, però, non mi accorsi  di nulla.

Chiesi a Stella che Balla se davvero si può stabilire quando il gioco, in particolare il gioco della guerra, finisce.

“Certo – rispose lei, trattenendo le risate – ciò avviene quando il desiderio avvolge il gioco, accompagnandolo fuori dalla nostra vita. Il desiderio che a cadere in terra, fingendo di essere colpito, non sia uno dei nostri giocherelloni, ma un bianco vero, in carne e ossa che cade rantolando il suo ultimo respiro e non può rialzarsi perché colpito a morte, colpito da uno dei nostri fucili o da una delle nostre frecce”.  

brano musicale

Allison Moorer A soft place to fall

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