La versione di Chumani 2.

Iniziò correndo, proseguì crescendo.

Tutti coinvolti nelle nostre corse: bambini e bambine, gli animali, le ombre, persino i raggi di luce, a volte il vento. Il bisogno di liberare un urlo, l’acqua del fiume intesi come obiettivo, i bambini in crescita e i nuovi arrivati intesi come partecipanti.

Si faceva di tutto, ma a volte si correva e basta. Non si aspettava alcun impulso e non si cercava nessun motivo. Fin quando qualcuno che stava crescendo, travalicando la sua stessa evoluzione, notò il limite e lo contestò. Orso al Risveglio, ossia quel qualcuno, esplicitò i dubbi tutto d’un fiato.

“Così come lo facciamo noi, non è un gioco”. Tutti ci mettemmo a fare saltelli di approvazione, in effetti eravamo un pochino stanchi di correre spesso a vuoto.

Diamoci delle regole, allora, proclamò Orso al Risveglio. Io ero la più scatenata, saltellavo e battevo le mani, urlavo e agitavo tutto il corpo. Sì! Giusto! Evviva! Dobbiamo fare così! In realtà non ci capivo molto, nulla sapevo sulle regole, a cosa servissero e a quale scopo. Però già che si tentasse di dare la meritata solennità al gioco mi faceva stare allegra. Poi c’era Orso al Risveglio, già allora lo adoravo e mi intrigava da morire. Volevo che lui fosse il mio esclusivo compagno di giochi e il dolce appuntamento nel lontano futuro, entrambi gioiosi e gaudenti nella nostra magica dimora. In quel presente, invece, dovevamo essere inseparabili, la coppia di cuccioli che tutti additavano e lui sempre vicino a me.

Orso al Risveglio aggiunse un ulteriore concetto.

“Dobbiamo giocare e gareggiare”, disse e quella volta mi fu molto chiaro. Il gioco che diventa anche gara, ciò che succede quando si cresce.

Quindi si sarebbero incensati i vincitori e decretati gli sconfitti. Si sarebbe osannato il bambino, o la bambina, più veloce, più abile e più audace. Io e Orso al Risveglio eravamo sempre davanti a tutti; ben presto saremmo stati riconosciuti come i condottieri ideali per quella masnada di piccoli giocolieri.

Nell’alba della mia nona primavera il villaggio di Coltello Spuntato[1]straripava di frenesia e confusione. Una scena, una condizione e uno spicchio di vita usuali e monotoni che hanno popolato raccolte di ricordi, antichi e recenti e, quando, il silenzioso fiume di sangue avesse sostituito la rumorosa frenesia, sarebbero stati ben presto sostituiti. Ma, non allora, era ancora il tempo scandito dalle illusioni

I giochi erano nel centro della luce, vivevano di allegria, di colori e di protagonisti. Fra i mocciosi Cheyenne il gioco era il simbolo e il segno dell’audacia. In molti, fra loro, non correvano insieme agli animali per simularne la cattura, o per abbrancare la coda dei puledri e, con meno frequenza, dei cavalli, ma spesso li montavano; urlavano spaventati ed eccitati, qualcuno cadeva in terra, altri restavano solidi e sicuri sopra gli animali, avevano imparato a cavalcare.

Stella che Balla era nella colonna dei grandi protagonisti, pronta a cimentarsi nelle gare più ardite; camminava, decisa e veloce, sulla pista dell’evoluzione. Si era staccata dalla coda dei cavalli, correva ai lati dei branchi, adocchiava il suo obiettivo e agiva. Prima costringendo il predestinato a scartare di lato; poi, un balzo. L’animale scopre stupito e ribelle un peso sulla schiena, a lui sconosciuto. Il cavallo, inutilmente furioso e recalcitrante; lei, Stella che Balla, abbrancata al collo del suo antagonista esibisce il suo trionfo con un urlo potente e rumoroso.

Guardavo con i miei occhi e assorbivo con i palpiti del mio cuore l’impresa gaudiosa di Stella che Balla, una scena magnifica che avrei ospitato a lungo nei meandri della mia memoria, quelli più esposti alla luce. Poi sarebbe toccato a me ripetere la scena e i giochi erano già in esaurimento. Me ne accorsi quando abbrancai il collo di Lampo, il futuro e fedele equino della mia vita, con la paura da dominare, solo dopo avrei avuto la gioia che prorompe nelle urla più selvagge.

Stella giocò anche con i corpi, in seguito con i sentimenti e gli sguardi audaci, sempre con la leggerezza e l’inconsapevolezza della fanciulla. Ha giocato, anche insieme a me, con la vita, armata di tenacia e di assenza di prudenza.

Me lo disse un giorno, stavamo guardando giocare i nostri figli.

“Perché, cara Chumani, se la vita è un gioco, questo va preso seriamente, chiede di lottare per difendere la libertà. noi abbiamo potuto saltellare, correre e giocare perché eravamo liberi …”.

Guardando avanti spesso si torna indietro. Lo pensavo osservando Vento che Accarezza[2]oscillare sopra le teste di decine di uomini e donne del mio villaggio, cullato dalle loro braccia e accompagnato dall’allegria. Poi, osservando in profondità, con qualche briciola di amarezza, mi dicevo che sarei stata io a raccontare la scena al moccioso, il quale pur essendone il protagonista, non avrebbe portato con sé alcun ricordo. La stessa situazione che avevo vissuto io, con ficcanti rimpianti.

Del periodo di maggior tenerezza di tutta la mia vita, non possedevo alcuna gioia, non avevo alcuna rimembranza, con la quale e di cui parlare. Solo il ricordo e le sensazioni dei giochi erano i soli lasciti, con i quali potevo cavalcare sopra e dentro quei tempi.

Mia madre e mio padre erano i soli tutori e testimoni dei miei primi momenti, ma i racconti erano inquinati dai loro ricordi e dalle peripezie delle proprie vite. Solo con le primavere che si sommano una sull’altra, avrei potuto recuperare un senso, seppure non quello che avrebbe dovuto essere, alla narrazione del mio primordiale tratto di strada.

Così mi immaginai quali fossero stati i miei desideri e le mie aspirazioni. Con stupore avrei notato che mai ebbi alcun rimpianto per posti più belli e più importanti dove sarei potuta nascere. Avevo un intero popolo che mi cullava e accompagnava la mia crescita, decine e decine di sorrisi, di carezze e di baci salutavano il mio giorno. C’erano i fratelli bisonti, gli animali, i racconti degli anziani, i colori, la grande prateria libera dagli intrusi, le donne più coinvolgenti e solidali che un popolo possa vantare. C’erano Stella che Balla e Orso al Risveglio, le sponde della mia vita, la mia cara madre e il mio caro padre e la tenerezza di Piccolo Daino che poi sarebbe diventato Dolce Vento, il grande affetto, l’ironia e a volte la spocchia del mio caro fratello Al Mattino.

Talvolta capitava, parlando con Cuore Spezzato[3], di paragonare le semplicità della mia vita con le ricchezze ostentate e mostrate dai bianchi. Lui, da bravo bianco ambiguo e sensibile, un poco ci aspirava e altrettanto le aborriva; io liquidavo il confronto con una sprezzante risposta.

“I bianchi? Di loro ricordo Sand Creek[4].”. un dialogo, il nostro, senza nessun’altra prospettiva.

Roteavo lo sguardo su quanto potevo vedere e che mai avrei voluto perdere. La carne che arrostiva, le acque del fiume, placide o agitate che fossero, i cavalli che mangiavano la corteccia degli alberi, gli uccelli sui rami, le nostre vite che non volevano correre.

Sai Stella, mi mancano i giochi, hai ragione tu: abbiamo voluto giocare per difendere le nostre vite, perché noi eravamo liberi.


[1] Capo dei Cheyenne Settentrionali

[2] Il figlio primogenito di Chumani

[3] Personaggio del libro “Eravamo liberi”

[4] Riferimento al massacro del Sand Creek

brano musicale:

Dire Straits – Brothers in arms (live)

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